
Ciao ragazze, oggi ho con me Silvia Avallone, una scrittrice che molte di voi conosceranno, per parlare di empowerment femminile. Il suo primo libro, “Acciaio“, ha vinto il secondo posto al Premio Strega nel 2010, seguito da “Marina Bellezza” nel 2013, “Da dove la vita è perfetta” nel 2017 e “Un’amicizia” di cui parliamo oggi in questo podcast. Silvia è inoltre diventata mamma nel 2015 della piccola Nilde.
Il tuo ultimo romanzo, “Un’amicizia” parla appunto di empowerment femminile e di amicizie al femminile, un tema molto ricorrente nei tuoi romanzi. Quanto pensi sia importante la sorellanza tra donne?
Penso sia fondamentale, soprattutto in adolescenza, quando ci si allontana dalle proprie famiglie e si inizia a mettere in discussione il modo in cui si è stati educati. In questa ricerca della propria identità, l’amicizia rappresenta un modo di conoscersi meglio affacciandosi sul volto di un altro.
Tu hai molte amiche?
Ne ho diverse, la più grande me la porto dietro dai banchi di scuola. Abbiamo vissuto tutte le tappe della nostra vita insieme anche se lei vive all’estero. Ho anche perso delle amiche quindi conosco bene anche le sensazioni che si provano quando un’amicizia finisce.
Si sente dire spesso che un’amicizia vera tra donne non può esistere e che le donne sono le peggiori nemiche nelle donne.
Penso faccia parte di uno dei mille stereotipi in cui ci vogliono costringere. Per me l’amicizia femminile ha grande valore proprio perché, all’interno della sorellanza, possiamo sperimentare la nostra indipendenza senza costruire la nostra identità in relazione a figli, mariti o fidanzati. Noi donne non siamo mai da sole, sembriamo esistere sempre in relazione a qualcuno o qualcosa, non siamo mai tenute in considerazione nella nostra complessità che invece esce al meglio nell’amicizia femminile.
Ho davanti agli occhi un passaggio del tuo libro: “Gli accarezzai le guance, il mento. Ripassai con l’indice i suoi contorni, realizzando che per i suoi sogni avrei sacrificando i miei. Sentendomi dentro, irrazionale e potente, quella vocazione femminile al martirio che ha a che fare con millenni di schiavitù e con un corpo congegnato apposta per sopportare, tra lacerazioni, gravidanze e parti, il peso della felicità degli altri”. Tu qui descrivi una giovane donna che vede già la sua vita in relazione ad un ragazzo.
Purtroppo questo tipo di educazione è nell’aria ancora oggi. Siamo noi donne che veniamo sempre chiamate a fare un passo indietro, basti pensare all’incredibile numero di donne che hanno perso il lavoro durante la pandemia. Sacrifichiamo costantemente la nostra voce, i nostri talenti ma così facendo non facciamo la felicità dei nostri figli, che ereditano le nostre rinunce e raccolgono i nostri vuoti. In “Un’amicizia” ho raccontato il dolore di due figlie che si trovano in eredità le rinunce delle loro madri. Questo meccanismo va rivoluzionato, cosi come la figura della principessa che sorride e tace, che non ha desideri ed è solo desiderata. Dobbiamo piano piano liberarci di tutti gli stereotipi con cui hanno voluto sacrificare la nostra voce e lavorare sull’empowerment femminile.
Mi viene in mente Francesca Cavallo, autrice di “Storie della buonanotte per bambine ribelli” (potete ascoltare la sua puntata del podcast qui), a cui dei bambini chiesero perché le principesse fossero sempre addormentate. Secondo te come è possibile svegliarsi?
Si tratta di una continua battaglia interiore per liberarci dal senso di colpa. Da sempre ci incasellano in categorie per metterci le une contro le altre, dobbiamo liberare la nostra interiorità e lottare a partire dalle piccole ingiustizie come la battuta per strada o il fatto che pretendano sempre di dirci cosa dobbiamo fare a a cosa dobbiamo aspirare. E naturalmente dobbiamo chiedere una parità familiare perché sono fermamente convinta che la disparità di genere, che nei casi più gravi sfocia nel femminicidio, inizi in famiglia. Se la famiglia è costruita con una donna che vive solo in casa e un uomo che vive solo fuori, si crea una disparità e l’abitudine a considera le donne sempre a servizio degli altri. In una famiglia entrambi i genitori devono prendersi cura di sé stessi e dei loro sogni ed entrambi devono occuparsi dei figli. Questo insegnerebbe da subito ai figli che le donne sono alla pari degli uomini e hanno il diritto e il dovere di prendersi cura dei loro sogni.
Tu sei riuscita a costruire una famiglia cosi? Sei cresciuta in una famiglia del genere?
Nella mia famiglia di origine ho respirato molta parità. Sono rimasta molto delusa quando mi sono resa conto che a livello sociale questa parità ancora non c’era e mi sono molto impegnata con mia figlia per parlarle di empowerment femminile ed inculcarle che le principesse possono fare altro a parte dormire. Per me è importante crescerla in una famiglia in cui mio marito è presente quanto lo sono io, in cui entrambi lavoriamo e ci prendiamo cura di nostra figlia in eguale modo.
Hai parlato di delusione. Ti ricordi il momento in cui ti sei resa conto che la parità ancora non esiste?
Sicuramente quando sono uscita dal mio nucleo familiare, con l’ingresso all’università e nel mondo del lavoro. Quando sono diventata madre mi sono resa conto dell’incredibile disparità nei congedi per madre e padre, con uomini svantaggiati che non possono stare a casa quanto vorrebbero e donne costrette a stare a casa anche più di quanto vorrebbero.
Io vivo in Austria ed esiste la possibilità per gli uomini di avere un lungo congedo parentale, ciò nonostante solo il 4,5% degli uomini ne usufruisce. Per questo motivo dico sempre che in Italia non sarebbe sufficiente una legge per il congedo di paternità, ma servirebbe renderlo obbligatorio perché la maggioranza degli uomini non sono pronti. Per una questione culturale, pochissimi accetterebbero di prendere 5-6 mesi di congedo e restare da soli con un neonato.
Esatto, la rivoluzione culturale deve agire contro gli stereotipi di genere. Attualmente esistono un femminile e un maschile rigidi, vecchi, violenti nella loro riduzione delle nostre persone a una cosa sola, le donne solo madri e l’uomo solo lavoratore. Questa cultura, per quanto sia radicata, ormai è inaccettabile. Credo che le ingiustizie siano enormi e spesso portano ad esiti drammatici. La donna è talmente percepita come oggetto e proprietà che si può sfociare nel femminicidio.
Mi viene in mente un tuo articolo intitolato “Sono una mamma ma non sono una santa”. Cosa intendi?
Intendo che una donna diventando madre resta donna e resta imperfetta, piena delle sue fragilità, dei suoi desideri. Non può rasentare la perfezione, perché annullarsi per i propri figli non è perfezione. Io credo che i nostri figli abbiano bisogno della nostra imperfezione, non devono riempire i nostri vuoti. Li mettiamo al mondo per separarci da loro ed è bello quando genitori e figli possono dialogare in modo autentico senza fagocitarsi a vicenda. Una madre che sacrifica tutto per te è una madre ingombrante.
Le due figure materne del tuo libro si sono annullate per i figli. Secondo te una donna moderna non può essere realizzata solo nella cura familiare?
Credo fortemente che ogni persona debba avere una stanza solo per se. La propria libertà e identità devono essere mantenute, se tutto crolla io devo poter restare in piedi perché non dipendo da nessun altro. Io credo che la libertà nella costruzione della propria identità e delle proprie passioni debba rimanere. Questo vale nelle relazioni d’amore come in quelle con i figli che un giorno ci lasceranno per raggiungere i loro sogni. Non possiamo costruire la nostra identità a partire dall’identità degli altri. Possiamo costruire relazioni ma mai inglobando gli altri.
Come è cambiato il tuo lavoro da quando è nata tua figlia?
Mi rendo conto di quanto tempo ho buttato via prima. Adesso appena ho un’ora libera cerco di sfruttarla al massimo. Bisogna rinunciare a qualcosa, io non potrei rinunciare ne alla scrittura come non potrei rinunciare a stare con mia figlia. Riesco a scrivere quando è a scuola, non è facile far quadrare tutto ma io da mia figlia ho un sacco di creatività e spunti, ho meno tempo ma più idee e più fame di scrivere.
Io ogni 2-3 mesi chiedo a mio marito di andare dai miei suoceri con nostra figlia e lasciarmi un weekend libera. Mi rendo conto che la mia produttività invece di crescere scema perché l’idea di avere tutto quel tempo per me mi fa lavorare meno, sono meno concentrata. Recentemente ho letto il libro “La Spinta” di Ashley Audrain e una tua recensione dove parli della solitudine delle madri e degli stereotipi ingiusti in cui vengono imprigionate. Cosa hai provato leggendolo?
Ho provato molta rabbia e senso di ingiustizia soprattutto nella scena in cui lei è sola e disperata. Ha rinunciato a tutto per sua figlia e arriva al punto di lasciarla piangere per poter scrivere e quando il marito torna, fresco di ufficio, si indigna e la giudica colpevole. Da una parte c’è una donna sola tutto il giorno e dall’altra un uomo che nulla fa ma giudica pesantemente. In questo libro è emerso come solo le madri sono giudicate, a differenza dei padri. Noi sappiamo che la maternità non è un idillio, è un evento complesso e stare accanto a una neo mamma è fondamentale. Si tratta di un evento che ci scuote talmente alle fondamenta che se ci sentiamo anche sotto esame possiamo esplodere.
Anche io mi sono molto arrabbiata per questo uomo la cui vita non sembrava cambiata. La vita delle donne viene stravolta dalla maternità e le due mamme che descrivi in “Un’amicizia” sono diverse ma simili nell’annullamento che vivono per i figli dai quali vengono anche giudicate. Ho notato che i figli giudicano più spesso le madri che i padri.
Si tratta di un aspetto cosi pervasivo della nostra cultura che tocca anche i figli che pretendono dalla madre una presenza costante. L’uomo può essere assente, una donna deve essere sempre pronta ad esserci ed è ingiusto. I figli devono poter contare sulle presenze e accettare le assenze di entrambi. Devono accettare i genitori e le mamme devono lavorare sull’empowerment femminile e riuscire a liberarsi dei sensi di colpa di cui sono state inondate.
Quando mia figlia mi vede con un libro cerco di insegnarle a rispettare il mio tempo. Io sono cresciuta in una famiglia per cui se mi chiamavano dovevo scattare anche se stavo leggendo o studiando. Voglio spiegare a mia figlia che quello che faccio io è importante. Vorrei che non le sembrasse che quello che fa mio marito sia più importante di quello che faccio io, a prescindere di cosa si tratti.
Anche in casa mia c’è assoluta parità di intenti e di valore, io che scrivo e lui che esce per andare a lavorare siamo alla pari. Io non cucino, cucina mio marito quindi ho riso perché una volta siamo andate al supermercato con mia figlia e sulle teglie delle torte c’erano solo foto di donne e mia figlia era stupita che non ci fossero uomini. In effetti è facile distruggere stereotipi anche dalle cose più semplici.
Come si fa a uscire da questa trappola e lavorare sull’empowerment femminile se il proprio ambiente familiare non è paritario?
Non bisogna tacere. Chi ci può amare davvero chiedendoci di rinunciare a noi stesse? In un rapporto di amore la felicità dell’altro e il rispetto per l’identità dell’altro è fondamentale. Se ci vogliono costringere a stare al loro servizio dobbiamo ribellarci.
La pandemia ha fatto deflagrare il problema femminile in Italia, la fatica che le donne fanno a far quadrare tutto. Cosa dobbiamo fare affinché le cose cambino?
La pandemia ha amplificato problemi vecchissimi. In un mondo in cui i figli crescono in un villaggio ci vuole la scuola, il nido che non sia appannaggio di pochissimi. Ci vuole una rete sociale che si prenda cura dei bambini e dei giovani e aiuti le famiglie. C’è un discorso da fare nelle famiglie per cui le donne si devono rifiutare di essere sole nell’accudimento e una società che sostiene le donne, che riconosca pari stipendi e che le aiuti a crescere i figli.
Quanto c’è di autobiografico nei tuoi libri?
Nessun personaggio è me stessa. Io amo raccontare gli altri ma anche se non racconto la mia vita racconto problemi che mi hanno toccata o mi toccano. In “Un’amicizia” ho messo tutta l’anima, la mia paura di diventare adulta, la femminilità da gestire, l’empowerment femminile, la paura della rivoluzione digitale e dei social quindi non è la mia storia ma anche io sono una donna che lotta per essere più libera e perché sua figlia lo sia.
Io sono dell’88 ed è stato bello leggere quelle pagine, è stato come tornare indietro nel tempo. Cosa intendi come paura dei social?
Io ho sempre creduto nella letteratura e la letteratura racconta il conflitto, l’invisibile e ogni romanzo che ho amato ha raccontato le infelicità, gli amori complicati. I social, o un certo tipo di social, hanno tradito lo spirito originale del web che ci chiedeva di essere sinceri e hanno iniziato a spingere verso l’apparenza. Questa narrazione ha iniziato a farmi sentire frustrata.
Nel 2016, quando sono diventata mamma, c’erano pochissime mamme blogger che mostrassero la vera essenza di cosa significhi essere madri. Anche io ho sofferto nel vedere questa perfezione, non capivo perché io ci mettessi giorni a fotografare mia figlia mentre le altre erano sempre perfette e sorridenti.
Quando io sono rimasta incinta mi sono presa una pausa dai social Quando sono tornata mi sono accorta che queste maternità erano narrate dietro una patina di perfezione che non avevo mai visto e che mi è sembrata poco rispettosa delle tante difficolta. Far vedere la propria umanità e fragilità e ammetterla può far bene. Ognuna di noi ha paure e fragilità e non dobbiamo vergognarcene, anzi può servire a fare rete.
I tuoi articoli sono abbastanza forti, hai mai ricevuto critiche?
Ne ho ricevute sulla questione femminile in generale e sempre da parte di uomini. Chiaramente sono cresciuti nel privilegio ma è un privilegio che non fa bene neanche a loro.
“Acciaio” di Silvia Avallone
“Marina Bellezza” di Silvia Avallone
“Da dove la vita è perfetta” di Silvia Avallone
“Un’amicizia” di Silvia Avallone
“La Spinta” di Ashley Audrain
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2 Comments
Bellissima intervista! Grazie Natalia.
Grazie a te, Lucia 😘