
Ciao ragazze oggi parlerò del libro di Rachel Cusk, Il lavoro di una vita.
Non è un libro recente, Il lavoro di una vita è stato pubblicato in inglese nel 2001. Sono andata a curiosare nella biografia dell’autrice e ho scoperto che ha l’età di mia madre, ho letto il suo racconto in qualità di figlia quindi e in qualità di madre e posso dire, con assoluta onestà che questo libro è il resoconto più limpido e onesto su cosa significhi diventare madre per una donna e professionista dei nostri tempi.
Negli anni ho letto centinaia di libri sulla maternità, saggi, racconti autobiografici, manuali, non posso assolutamente dire che siamo a corto di libri di questo genere, ma per descrivere la mammificazione in maniera così schietta ci vuole un talento acuto e una chiarezza espressiva che hanno in pochi, Rachel Cusk li possiede entrambi e ha anche una buona dose di coraggio.
E parlando di coraggio, mi ha stupito leggere che questo libro è stato accolto in maniera non del tutto pacifica dal pubblico. A quanto pare anche nel mondo anglosassone parlare apertamente di maternità, soprattutto quando sei un’autrice acclamata e di successo può essere una scelta scomoda e un terreno minato.
La stessa Cusk scrive nell’introduzione alla seconda edizione del libro:
“Quando questo mio breve racconto dell’esperienza di diventare madre fu pubblicato, nel 2001, molti lo giudicarono offensivo. Ho letto centinaia di libri che mi hanno turbata o shoccata, libri strampalati, libri deprimenti, libri che mi hanno annoiata, divertita, o detto un sacco di cose che non sapevo e che da sola probabilmente non avrei scoperto; ma non ho mai letto un libro che mi abbia offesa.”
E poi aggiunge anche per chi è questo libro:
“Chi, uomo o donna, sa riconoscere nell’esperienza della genitorialità l’esperienza della separazione primaria – con il suo patrimonio di tragedia, commedia e amore – fra il sé e gli altri; chi è inoltre capace di vivere un libro come un’eco, una consolazione, uno specchio; chi sa apprezzare la scoperta individuale al di là della rappresentazione istituzionale, le vicissitudini personali al di là della disonestà collettiva: è per queste persone, chiunque e dovunque siano, che ho scritto questo libro. Quanto agli altri – i giornalisti che mi hanno accusata di essere una madre inadeguata o anaffettiva, i critici che tuttora usano il mio nome come sinonimo di odio per i bambini, le lettrici e i lettori che equiparano l’onestà alla blasfemia visto che la religione è quella della maternità – posso solo suggerire di prenderla un po’ meno seriamente. Dopotutto il pronome che regge il libro è Io, non Voi.”
Leggendo anche solo questi 2 passaggi capite la ricchezza del libro e probabilmente intuite perché è stato accolto in modo controverso, gran parte dei lettori l’hanno amato ma alcuni si sono sentiti offesi.
Noi in Italia siamo un po’ indietro rispetto ai paesi anglosassoni e quello che nel Regno Unito ero coraggioso 20 anni fa è coraggioso in Italia ora. Parlare pubblicamente e apertamente come fa Cusk della maternità in Italia è tuttora problematico. Il pubblico si sente offeso da una madre che ammette i propri sentimenti contrastanti. Chiunque si azzardi a togliere il velo dell’idealizzazione della maternità viene punito immediatamente. Una madre onesta sulle difficoltà della maternità e sul trauma che che accompagna le donne moderne quando diventano madri non ci piace, la troviamo scomoda e fuori luogo. Questo la dice lunga sul nostro inconscio collettivo, preferiamo deridere o addirittura insultare una madre in difficoltà che osa descrivere la maternità con toni diversi dai colori pastello. Invece di farci delle domande, chiederci se possiamo fare qualcosa come società, fosse anche solo ascoltare senza giudicare.
Rachel Cusk ha scritto questo libro quando la sua bambina aveva pochi mesi di vita e ragazze credo che questo sia un punto cruciale. È impossibile descrivere questo vissuto a meno che non sia ancora fresco di esperienza. Sono convinta che “Il lavoro di una vita” sia un capolavoro anche perché si legge il suo essere dentro la mammificazione. Vi ricordate della metafora della corrente d’acqua? Per mammificarci dobbiamo attraversare la corrente d’acqua tra i due continenti, il continente non mamma e il continente mamma, per ognuna di noi è un percorso diverso e unico e credo che sia un dono inestimabile avere tra le mani un resoconto di mammificazione scritto da una donna proprio mentre era in questa corrente. Quanto a me, io quando mia figlia aveva pochi mesi era già tanto se riuscivo a scrivere un’email, figuriamoci un libro. Quindi massima ammirazione e un inchino speciale a Rachel Cusk.
Sapete quello che si dice del cervello della donna in gravidanza o della neo-mamma?
Ecco, chiaramente la gravidanza non ha intaccato l’intelligenza della signora Cusk. Perché il suo libro è intelligente, incisivo, riflessivo. Osa dire cose che altri libri non dicono con molti passaggi che mi hanno colpito nel profondo:
“Questa esperienza è stata una proficua lezione su una cosa su cui non avevo mai riflettuto molto: ovvero che dopo la nascita di un figlio la vita della madre e quella del padre divergono, e se prima esisteva tra loro una relativa parità, ora s’instaura una sorta di rapporto feudale. Una giornata trascorsa in casa ad accudire un figlio è quanto di più diverso possa esserci da una giornata di lavoro in ufficio. Quali che siano i rispettivi meriti, sono giorni vissuti ai poli opposti del pianeta. Da tale inconciliabile inizio, mi sembrava che scivolare poco o tanto verso il rafforzamento del patriarcato fosse inevitabile: la giornata del padre si sarebbe gradualmente rivestita dell’armatura del mondo esterno, denaro, autorità e importanza, mentre le competenze della madre si sarebbero estese fino a coprire l’intera sfera domestica.
Oltre a dividere gli uomini dalle donne, il parto divide le donne da se stesse, mutando profondamente la loro idea di esistenza. Un’altra persona è esistita dentro di lei, e dopo la nascita devono vivere entrambe secondo le regole della sua coscienza. Quando una donna sta con i figli non è se stessa; quando non sta con loro non è se stessa; ecco perché lasciare i propri figli è difficile quanto stare insieme a loro.”
Rachel Cusk spiega nell’introduzione del libro che dopo un periodo a Londra dopo la nascita della bambina si sono trasferiti tutti e tre(lei marito e figlia) in una piccola cittadina universitaria e suo marito lasciò il lavoro e si prese cura della loro bambina mentre l’autrice scriveva questo libro. E non è un dettaglio da poco, come vedete per permettere la realizzazione di un progetto di una neo-mamma, abbiamo bisogno della completa dedizione del neo-papà. Questa scelta del tutto personale è stata molto criticata dai media britannici e non solo, tutti erano sconvolti dal fatto che una donna, appena diventata madre non decida di mettere al secondo posto il proprio lavoro e la propria arte, ma che lasci il ruolo di genitore primario nelle mani del marito. Vorrei che ci fermassimo a riflettere su quanta fatica facciamo ancora a rinunciare ai ruoli stereotipati della famiglia patriarcale. Su come siamo veloci nell’offendere una madre, una donna, quando essa si discosta dalla narrativa idealizzata che abbiamo preparato per lei.
A Rachel Cusk e a suo marito dico che ogni minuto di quel tempo(immagino molto difficile per entrambi) ne è valso la pena e per quanto possa suonare banale ma credo che
Cusk riesce a descrivere la sua incursione nella maternità come qualcosa di tutto sommato spiacevole ma condito di cose piacevoli. Spiega come per lei la gravidanza sia stata una specie di gabbia in cui la donna perde il controllo di se stessa, di come il parto sia stato tutto fuorché esaltante, le coliche e le notti insonni siano state traumatiche, l’allattamento al seno sopravvalutato e prendersi cura di un bambino è gran parte del tempo noiosissimo.
Fa tutto questo senza mai dover ricordarci, come fanno la maggior parte delle madri e delle mamme, che ama il suo bambino!!! Che ne è valsa la pena, come se volessero giustificarsi.
Il lavoro di una vita è un memoir che parla di un’esperienza individuale ma è allo stesso tempo universale, e racconta il concepimento, la nascita e i primi anni di vita di un bambino.
Non di tratta di un saggio né di un manuale per genitori, non si danno consigli alle future mamme, è un racconto scritto nell’immediatezza della propria esperienza, generato da un iniziale senso di vuoto, da due unità inconciliabili (mamma e figlia ) che finiscono con il fondersi, è un incontro che all’inizio fa paura, è detestabile, ma poi si fonde nella crescita di una relazione. Tra madre e figlia.
È una lettera indirizzata alle donne, nella speranza che trovino una qualche compagnia, include riflessioni sui romanzi letti che danno voce al tema trattato, è una rivisitazione di sé e del proprio mondo, nella difficile accezione madre-figlia.
E c’è proprio tutto ma soprattutto c’è il senso di disorientamento e disperazione che una neo-mamma prova alle prese con un neonato. L’allattamento:
“Penso per la millesima volta che detesto l’allattamento al seno. Voglio smettere. Eppure, il ricordo della sua nascita prematura e innaturale ogni volta m’induce a cederle ancora per un po’ l’uso del mio corpo. Non so se la mia preziosa offerta valga piú dell’effetto che produce, sembra infatti che io le somministri una dose di cianuro ogni tre ore.”
E quante di noi si sono sentite proprio così? Da una parte l’allattamento è una fatica immensa e vorremmo smettere ma dall’altra siamo convinte di dover dare ancora un po’ di noi sperando di fare la scelta giusta.
Le coliche:
“Ormai il fatto che pianga, se non l’ora, è diventato prevedibile, anche se le cause restano ignote. Ha pianto nel marsupio mentre passeggiavamo, nella carrozzina mentre cercavo di fare la spesa, sull’autobus, in metropolitana, in casa di amici e parenti, in braccio a me e ad altri. Ha pianto per interi, scuri pomeriggi, quando eravamo sole in casa e non c’era nulla da fare, oppure pioveva, o io ero troppo stanca per fare nient’altro che sedermi con lei in braccio mentre strillava. Ho rinunciato a contenere il pianto in una cornice adulta, affidabile. Sono corsa a casa con lei urlante tra le braccia, tirandomi dietro la carrozzina come una pazza mentre la gente mi fissava. Sono saltata giú dagli autobus ritrovandomi chissà dove. Sono fuggita dai caffè. Ho troncato telefonate senza spiegazione. Ho pianto anch’io. Ho urlato, facendo trasalire il suo corpicino. Ho passato lunghe sere seduta in cucina, dispensando consigli mentre suo padre andava su e giù con lei.“
Cusk riesce a catturare i momenti che illuminano la disperazione che le madri possono provare quando scoprono il vero disorientamento che deriva dal prendersi cura di un bambino.
Nessuno l’ha preparata davvero alla sensazione di avere la propria vita dirottata – ammette di aver saltato i riferimenti a bambini o neonati nei libri che leggeva prima. La parte che descriveva i bambini non era rilevante e non aveva importanza. Sapete quando una neo-mamma chiede con voce supplicante perché nessuna le ha mai raccontato com’era avere figli? Ecco, secondo me il problema non è la mancanza di racconti o di persone che sono sincere sull’essere genitori, è che chi non ha figli non ascolta, non vuole ascoltare, pensa che il discorso non lo riguardi. E se gli capita di sentire qualcosa sull’avere figli pensa sempre che quella è solo l’esperienza del genitore in questione, che lei non avrà le stesse difficoltà. Così non ascoltando e non credendo a chi racconta abbiamo tutte la sensazione che nessuna ci ha mai detto la verità.
Quello che ho apprezzato del memoir di Cusk Riesce a raccontare la sua storia senza mai farci dubitare del suo amore per i figli e senza la sensazione di dover cercare la nostra approvazione a tutti i costi.
È la cultura che abbiamo creato, intorno alla gravidanza, alla maternità e alla genitorialità, che lei attacca in questo libro. Le madri intorno a lei sembrano dei manuali ambulanti, incapaci di raccontare le proprie verità perché sono già state dette per loro. Vorrebbe dire ai suoi amici che non trova niente di positivo nella sua nuova condizione di madre, eppure 2 pagine dopo dice che le mancano gli anni di quando sua figlia era piccola. È torturata dai resti del suo IO precedente, senza figli, ma non riesce a sopportare di lasciare sua figlia con nessun altro. L’ambivalenza materna, bisogna davvero provarla per capirla a fondo, ma questo libro la riassume molto bene.
E riassume molto bene anche il continuo scontro tra la madre e il bisogno che la figlia ha di lei e la donna nonché artista che vorrebbe continuare ad essere:
“Per essere una madre devo ignorare le telefonate, lasciare il lavoro a metà, venir meno agli impegni presi. Per essere me stessa devo lasciar piangere mia figlia, anticipare le sue poppate, abbandonarla per uscire la sera, dimenticarla per pensare ad altro. Riuscire a essere l’una significa fallire nell’essere l’altra.”
E ancora:
“La sola cosa che mi viene chiesta è esserci; una «sola cosa» che naturalmente è tutte le cose, perché essere qui significa non essere da nessun’altra parte, essere pronta a lasciar perdere tutto il resto. Essere me stessa non mi ricompensa del non esserci.”
Se volete fare un viaggio negli abissi di una donna appena diventata madre e vedere il vostro vissuto scritto nero su bianco con maestria e senza edulcoranti vi invito a leggere questo libro, merita assolutamente!
Un grazie speciale a Giulio Einaudi Editore per aver sponsorizzato questa puntata e avermi chiesto di recensire questo libro e farvelo conoscere.
Il lavoro di una vita di Rachel Cusk, traduzione di Anna Nadotti e Micol Toffanin, edito da Einaudi
Leggetelo.
Vi aspetto sul mio Instagram per parlarne, taggate me e Einaudi quando lo leggerete e passate a lasciare le vostre impressioni nell’articolo dedicato a questo podcast, a cui vi lascio il link nella descrizione dell’episodio.
Grazie ragazze e a presto!
L’Ora della Mamma è il podcast che tratta i temi legati alla maternità in modo a volte scomodo ma sempre reale.