
Ciao ragazze, oggi ho con me Flavia Gasperetti, giornalista, traduttrice, con un dottorato di ricerca in storia contemporanea e autrice di “Madri e no – Ragioni e percorsi di non maternità” per parlare di donne senza figli. In questo libro Flavia parte da un punto di vista diverso dal solito. Non si chiede se si vogliono o no degli figli ma, con la consapevolezza acquisita di non volerne, si chiede il perché.
Nel tuo libro ti chiedi perché le donne senza figli fanno questo tipo di scelta ma anche perché alcune scelgono di avere figli, giusto?
Si, questa è stata la mia domanda di partenza. Viviamo in un società che concepisce sempre di più la genitorialità come una questione di scelta e a questa scelta viene attaccato un valore. Noi sappiamo che non sempre si tratta di scelte e sappiamo anche che esistono una serie di discorsi culturali molto pressanti che si cristallizzano intorno a questa scelta. Generalmente a chi sceglie non avere figli viene chiesto un perché che raramente viene chiesto a chi sceglie di averne.
E’ vero, che tu abbia 25 o 40 anni nessuno ti chiede perché tu voglia il primo, secondo o quarto figlio. Nel tuo libro scrivi che il 45% delle donne in Italia non ha figli e immagino che grazie ai contraccettivi ognuna di noi pensi che avere un figlio sia una scelta. Tuttavia la pressione culturale che viviamo per fare figli è spesso così forte da rendere inevitabile questa scelta. Cosa ne pensi?
All’interno della percentuale del 45% di donne senza figli, sono comunque una minoranza le donne che dichiarano di non volerne in assoluto. La situazione più diffusa è quella di persone che per varie circostanze ancora non hanno i figli che vorrebbero avere. Ma per quante persone che non hanno figli possiamo realmente parlare di scelta laddove mancano i presupposti economici e sociali per poterne avere?
Io ho una figlia e nessuno mi ha mai chiesto perchè ho scelto di averla. Spesso mi chiedono perché non faccio il secondo. Io rispondo che lo farei se mio marito decidesse di prendere 6 mesi di paternità. Questo in Austria è possibile eppure solo il 4,5% degli uomini austriaci usufruisce del congedo. Nel mio caso è una questione di parità di genere perché so che avendo un secondo figlio rimarrei indietro dal punto di vista di studio, carriera e stipendio e non voglio farlo. Il prezzo da pagare è troppo alto in questo momento.
Andando ad analizzare dove si concentra il 45% di donne senza figli, si tratta di luoghi dove la disoccupazione femminile è più diffusa e dove mancano tutta una serie di ammortizzatori sociali come il nido. Questo aspetto è importante, ci sarà sempre chi non vuole figli e ci sarà sempre chi sarà disposto a tutto per averne ma questa percentuale è composta anche di tante persone che li vorrebbero ma non a tutti i costi.
Tu hai sempre saputo di non voler essere madre? Come sei arrivata a questa risposta?
Ho sempre avuto questa consapevolezza anche se in modo diverso in diversi momenti della mia vita. Da bambina non amavo nessun gioco che includesse far finta di avere figli e raramente le mie eroine ne avevano. Ero attratta da figura concepite come altro rispetto alla maternità, forse anche perché nei libri che amavo le madri erano spesso figure di sfondo che mi apparivano come meno interessanti.
Io ho 32 anni, mia sorella ha 7 anni meno di me e per lei sono stata come una seconda mamma. Quando ho avuto mia figlia, a 28 anni, è stato come un rivedermi in quel ruolo ma la scelta di avere una figlia è stata velocissima, poco ragionata. Solo con il senno del poi ho capito cosa significasse. Personalmente, alle donne indecise consiglio di pensarci, esattamente come ci pensano quelle che non vogliono avere figli. Consiglio anche di pensare bene al partner con cui avere figli, una vera chiave di volta.
Mi rendo sempre più conto di come oggi le madri siano descritte in modo molto poco rispettoso. Nella nostra cultura sembra che possano parlare sempre e solo dei soliti di scorsi e il lavoro di cura è dato molto per scontato, non viene celebrato perché non porta avanti la nostra società.
Mi rendo conto, ripensandoci a posteriori, che in tarda adolescenza ho anch’io introiettato il più pernicioso dei discorsi collettivi che facciamo sulla maternità. Ossia celebrarlo a parole ma in realtà considerare tutto ciò che riguarda l’accudimento materno come una cosa inferiore, poco interessante che attiene al quotidiano e non comporta particolari capacità. C’è stato un periodo della mia vita in cui alla domanda sul perché non volevo figli mi davo questa risposta. Amavo studiare, sognavo di scrivere e avevo interiorizzato l’idea che avere figli non fosse un’impresa degna di nota come scrivere un libro o costruire un palazzo. Questa è un’idea che ho dovuto consapevolmente togliermi di dosso perché erano e sono tante le narrazioni che veicolano questo messaggio.
Qualche mese fa ho letto il libro “Latte nero” di Elif Shafak, un’autrice turca che ha descritto il suo difficile percorso verso la decisione di avere figli. La sua è una storia a lieto fine perché si è resa conto, dopo molti dubbi, di poter conciliare la propria arte con la famiglia. Il problema di questa narrazione sulla maternità che ti fa crescere e ti rende più creativa è che riguarda una piccola parte delle donne. Per chi rimane sola, senza aiuti, con poche risorse economiche, può essere frustrante leggere di chi con la maternità ha invece incrementato la propria produttività. Ancora una volta sono le più fortunate ad avere una voce.
Purtroppo è così. Da una parte c’è la celebrazione della maternità, ma quando diventi effettivamente madre tutto quello che fai viene dato per scontato. Se invece si monetizzasse il lavoro di cura uscirebbero cifre altissime. Quando mi sono accorta di questa dicotomia orrenda me ne sono allontanata. Tuttavia è rimasta la consapevolezza di non volere figli. La risposta che posso darti è che mi sono costruita un quotidiano per il quale ho lavorato molto, eliminando tutto ciò che non fosse positivo per me. Ho pensato, avere un figlio mi permetterebbe di fare quello che amo nel modo in cui lo faccio adesso? Nel mio caso la risposta è stata no.
Vorrei parlare dell’orologio biologico che tu descrivi nel libro come un costrutto mediatico.
L’immagine dell’orologio biologico come termine della fecondità femminile compare per la prima volta nel 1974 in un articolo del Washington Post. Fino a quel momento la scienza medica aveva usato questa espressione per indicare i ritmi circadiani di sonno e veglia. Non è un caso che questa narrazione sia nata dopo le rivendicazioni delle donne di fine anni ’60, con la legge per l’arto e l’ingresso delle donne in posizioni lavorative di prestigio, per creare loro uno spauracchio sulla fecondità femminile e di come si chiuda sempre prima di quanto pensiamo.
Cosa ci dicono i dati sulla durata della fecondità femminile?
Ovviamente sappiamo che la fecondità femminile ha un tempo, ma di quanto sia effettivamente questo tempo sappiamo molto poco. I dati che abbiamo sono raccolti sulla base di persone che entrano in contatto con la scienza medica perché non riescono a concepire, quindi hanno subito una grande selezione a monte. Quello che noi possiamo apprendere sulle persone che hanno problemi a concepire non ci dice molto sul resto della popolazione in generale. Sicuramente una buona fetta del 45% delle donne senza figli è composta da persone che non sono riuscite ad avere figli nei tempi che avrebbero voluto. Questo può dipendere dal fatto che in Italia abbiamo una popolazione più vecchia in cui natalità e maternità avvengono più tardi. Questo ha dei risultati ma a livello della fertilità individuale di ogni donna ci dice pochissimo.
Perché allora questa narrazione dell’orologio biologico?
Io ritengo che una cosa che terrorizza socialmente sia l’idea che le donne siano libere di scegliere perché significherebbe che possono anche scegliere di non avere figli. La sveglia dell’orologio biologico in qualche modo spinge le donne a fare figli.
Per quanto riguarda gli uomini però la spinta dell’orologio biologico è molto più bassa?
Accanto alla narrazione dell’orologio biologico c’è quella, non supportata da sufficienti studi, per cui la fertilità degli uomini non ha un limite effettivo. Qualche studio sulle conseguenze dell’età paterna avanzata c’è ma non abbastanza perché la correlazione si trasformi in causalità. Un altro motivo per cui si fa poca ricerca in questo senso è l’influenza del grande mercato della riproduzione assistita che spinge uomini e donne a congelare ovuli e spermatozoi. Si tratta di iniziative sicuramente utili e che altrettanto sicuramente fanno girare molti soldi.
Ho letto nel tuo libro che l’industria della fertilità è un’industria da 25 miliardi di dollari.
Rispetto alle ricerche di un anno e mezzo fa la cifra si sarà anche molto alzata.
Ricordo un matrimonio a cui abbiamo partecipato io e mio marito prima di avere nostra figlia. C’erano due ragazzi, ricercatori in Florida, che lavoravano nel campo della fertilità e paravamo dell’età giusta per avere figli. Parlando di mio marito, che aveva 35 anni, ci hanno spiegato che gli uomini hanno gli stessi rischi delle donne rispetto all’avere figli in età avanzata e questa pressione solamente sulle donne è ingiusta.
Nel tuo libro parli dell’immagine del desiderio di maternità come una febbre e di come la retorica dell’istinto materno sia utilizzata come un ricatto.
La narrazione dell’istinto materno è molto rassicurante per la società. In qualche modo toglie la scelta alla donna, fa si che per lei sia inevitabile scegliere di avere figli. Ammettere che l’istinto materno non esiste significherebbe, ancora una volta, ammettere che le donne possono scegliere sia di avere figli che di non averne. Io personalmente abbraccio la posizione di Simone de Beauvoir che non parla di istinto materno ma di sentimento materno. Una posizione anche più rispettosa del processo di attaccamento madre-figlio.
Sono d’accordo. Un sentimento si porta dietro tante sfaccettature, in vari momenti della vita può essere più o meno forte, avere alti e bassi ed è normale che sia così, come per qualsiasi altro sentimento in qualsiasi rapporto.
Nel tuo libro un paragrafo è dedicato agli studi sulla felicità. I genitori sono più felici dei non genitori o viceversa? Cosa hai scoperto?
Raccogliere dati sulla soddisfazione percepita è molto problematico. Esistono ricerche che valutano la soddisfazione percepita in relazione a dati come la salute, lo stesso, la condizione economica. Ci sono delle ambiguità soprattutto perché ogni indagine contiene il rischio di orientare i risultati verso la narrazione culturale più socialmente accettata. Questo si riscontra nel tipo di domande che si sceglie di porre, nella disattenzione rispetto a varianti che possono modificare i risultati in una certa maniera. Al netto di questi bias, i risultati sulla felicità sono divertenti. Sembra che, nei genitori, i picchi di felicità si abbiano nei primi anni di vita dei figli e quando i figli sono ormai adulti. Negli anni centrali questa felicità percepita cala moltissimo, in particolare in alcune situazioni (reddito basso, in proporzione al numero di figli, in adolescenza).
E per quanto riguarda le donne senza figli?
La narrazione comune vuole le donne senza figli più tristi e isolate. In realtà non è così. La felicità percepita cala ovviamente nelle persone che volevano figli e non sono riuscite ad averne. In generale però è riscontrata una maggiore soddisfazione personale in termini di minor stress e ampiezza di rete sociale (questo per quanto riguarda gli studi anglo americani). Le persone con figli, in questi campioni, tendono ad avere reti sociali più piccole e meno consapevolmente scelte immagino perché la cura dei figli assorba tempo e con più facilità tende a rimanere in una rete sociale che coinvolge i parenti oppure altri genitori.
Sicuramente dipende anche dal desiderio che anche i figli passino del tempo di qualità con altri bambini quando escono con i genitori. Penso a mia figlia che a 4 anni mi chiede esplicitamente se ci saranno altri bambini quando usciamo. Questo permette anche a noi di passare del tempo sapendo che lei si intrattiene e sicuramente questo porta a frequentarsi sempre con le stesse persone con figli più o meno della stessa età.
Quando si cerca di misurare qualcosa di ineffabile come il grado di soddisfazione, è importante valutare il concetto di significato che si da alla propria vita. I figli danno indubbiamente un significato molto forte alla vita di un genitore ma si può vivere una vita significativa in tanti modi, ci si può sentire che quello che facciamo ha valore non solo in termine di piaceri ma anche del bene che si può fare all interno dei propri legami, della propria comunità e del proprio lavoro. Avere figli è un modo, tra tanti, di dare significato alla propria vita.
Questo concetto è importante e vorrei sottolinearlo. Il fatto che per qualcuno il significato della propria vita risiede nei figli, per altri in altro è qualcosa di lucido e sincero e vorrei che tutti avessero questa sincerità. Soprattutto in Italia invece c’è un assurdo bigottismo rispetto all’idea che una donna possa pentirsi di essere diventata madre. Quando ho parlato del libro “Pentirsi di essere madri” ho ricevuto insulti, messaggi di rabbia.
Personalmente fatico a capire come non si possa provare empatia per una donna che ammette una cosa simile. Avere figli è l’unica scelta irrevocabile della nostra vita e gestirne il carico mentale ed emotivo può essere difficilissimo. Veniamo da decenni di martellante propaganda sui figli come la cosa più bella del mondo, rendersi conto di provare qualcosa che non rientra in questa glorificazione deve essere durissima.
Vorrei aggiungere che queste donne, non tantissime ma che comunque esistono, non sono persone che non si prendono cura dei figli, lo fanno ma internamente stanno male. Amano i loro figli ma convivono con la sensazione che se fosse rimaste senza figli la loro vita sarebbe stata migliore e non possono dirlo.
Tra l’altro questo sentimento non per forza è universale. Esiste una complessità infinita perché ogni legame è diverso. Possono esserci donne che provano questo sentimento in modo più forte in determinati momenti della loro vita.
Aiutami a far crescere sempre di più “L’Ora della Mamma”! Se i miei podcast ti incuriosiscono, stimolano e arricchiscono, votali e lascia una recensione su Apple Podcast. In questo modo mi aiuti a raggiungere altre donne che, come te, vogliono conoscere riflessioni scomode ma sempre reali sulla maternità.
Fai clic qui, scorri in fondo alla pagina, clicca per valutare con cinque stelle e seleziona “Scrivi una recensione”. Quindi, assicurati di farmi sapere cosa ti è piaciuto di più dell’episodio!
Inoltre, se non l’hai già fatto, iscriviti al podcast per essere sempre aggiornata sulle nostre novità. Iscriviti ora!
“Madri e no – Ragioni e percorsi di non maternità” di Flavia Gasperetti
“Pentirsi di essere madri” di Orna Donath
“Latte nero” di Elif Shafak
L’Ora della Mamma è il podcast che tratta i temi legati alla maternità in modo a volte scomodo ma sempre reale.