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Ciao ragazze, oggi ho con me Laura Formenti, docente di Pedagogia della famiglia e di Consulenza familiare presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Parliamo di Maternità Intensiva, che cos’è, come riconoscerla e perché non farcene sopraffare.
Dottoressa, lei cosa insegna di preciso?
Io ho due corsi, uno di Pedagogia della Famiglia nel corso triennale per educatori e uno di consulenza familiare, teoria e pratica, per i futuri pedagogisti nel corso di laurea magistrale. Ho lavorato molto in passato con famiglie e genitori ma da qualche anno è più facile che venga richiesto il mio intervento per lavorare con gli operatori, educatori, psicologi, assistenti sociali e insegnanti. Questo perché la famiglia si interfaccia con tantissime persone diverse, operatori e professionisti, anche medici ed è interessante abituare questi professionisti a pensare che non si ha mai a che fare solo con una persona ma c’è sempre la sua famiglia dietro (questo vale per i bambini ma anche per adulti e anziani).
Ecco gli argomenti che abbiamo affrontato con la dottoressa Formenti a proposito di maternità intensiva e rapporto genitori-figli:
Lei parla della famiglia come di un sistema complesso. Mi è piaciuta questa definizione perché ormai si tende a parlare di famiglia come di qualcosa che ha lo stesso significato per tutti. Lei però non ritiene che sia così.
Cerco di mostrare che non è così. Attualmente viviamo in un universo globalizzato e si sta proponendo sempre più un modello della famiglia appiattito culturalmente. Un tempo ogni cultura aveva un’idea diversa di famiglia, un vero e proprio oggetto culturale strettamente legato a un sistema di valori, adesso si tende invece a normalizzare la famiglia su un modello globale che è simile in tutte le società del mondo. Da un lato questo è positivo, perché si imparano modi di far famiglia che non sono quelli tradizionali della nostra cultura ma c’è anche un rischio di appiattimento.
Oggigiorno, con il concetto di maternità intensiva, si tende a passare l’idea che si possa insegnare il rapporto tra genitori e figli. Lei però parla di qualcosa di molto più complesso che ha molte radici diverse.
Il rapporto tra genitori e figli emerge in modo spontaneo, non possiamo progettarlo o stabilirlo a tavolino, si sviluppa dall’interazione quotidiana. I genitori sono adulti plasmati dalle loro esperienze precedenti, a loro volta sono cresciuti con modelli culturali che derivano dalla loro famiglia di origine ma anche da tutti gli stimoli che hanno ricevuto. Portano teorie implicite e affrontano il rapporto con i figli non partendo da zero ma partendo da sé e portando questa esperienza nella relazione. Il neonato invece non porta altro che sé stesso, fin da subito mostra il suo particolare temperamento e i suoi bisogni. E’ un sistema complesso, bisogna essere curiosi e chiedersi quante cose si imparano a stare in famiglia.
Molte mamme, parlando di maternità intensiva, mi raccontano spesso del desiderio e dell’idea di essere un buon genitore tramite le giuste letture, i giusti corsi o video. Ma si può insegnare ad essere una buona mamma?
Iniziamo col decostruire il concetto di buona mamma perché la buona mamma non esiste, è un costrutto sociale. Ci sono modi di fare il genitore che possono essere più o meno adatti ad un certo contesto e che possono produrre risultati desiderabili ma a stabilire cosa è desiderabile o meno è la società in cui si vive e il sistema in cui si vive.
Il termine parenting o genitorialità è recentissimo, risale circa agli anni 70 come oggetto di ricerca, nel momento in cui la società ha avuto bisogno di un certo tipo di cittadino e quindi di un certo tipo di famiglia che formi quel cittadino. A quel punto fare il genitore è diventato un lavoro per produrre un cittadino di un certo tipo, profondamente adattato. Ciò ha comportato che dagli anni 70 in poi tutti gli esperti e i programmi statali di intervento per le famiglie si sono concentrati sul formare dei genitori adatti a fare quel lavoro.
Lei cosa pensa del concetto di maternità intensiva che pone tanta responsabilità sulle madri?
Io sono molto critica perché, se per alcune mamme può sembrare relativamente semplice adattarsi a questo modello, per molte altre richiede una forzatura, una violenza sottile. Quel modello potrebbe andare contro ai loro desideri, ai loro valori e al loro modo di essere. Parlo anche della mia esperienza personale, io spesso mi sono sentita dire di non essere una brava mamma o una mamma a cui non interessava il benessere dei propri figli.
L’idea dominante è molto standardizzata quindi una mamma con una sua idea più creativa o originale di educazione si può sentire giudicata.
Lei come si è sentita quando l’hanno giudicata?
Per me è stato uno schock perché ero convinta di fare bene. Ad esempio quando mio figlio ha iniziato la prima elementare ed ero fiera che preparasse da solo la borsa con i libri per il giorno dopo ma venivo fatta sentire negligente per il fatto di non pensarci io. O ancora prima nella questione gravidanza, parto, allattamento e cure neonatali, una parte che secondo me andrebbe smontata e ricostruita.
Io ho fatto scelte contro corrente per l’epoca, ho partorito in casa, ho scelto l’alto contatto e in particolare la prima decisione mi ha attirato una serie di critiche sul fatto che avrei messo a rischio la vita di mio figlio. Tutti gli studi ci dicono che la brava mamma è quella che sta bene con il suo bambino e il suo bambino con lei e per stare bene con il proprio bambino è importante sentire che il potere decisionale è nelle proprie mani. Io ho tante amiche che quando rimangono incinte vanno in ansia e come prima cosa dico loro di smettere di leggere di tutto e di più. Internet ormai pullula di informazioni non neutre, in qualche modo pilotate.
La questione della scelta della donna in gravidanza e della neomamma non è semplice. Vedo donne così imbevute del contesto che le circonda che spesso interiorizzano alcuni aspetti della maternità intensiva anche se non li sentono giusti per loro.
Bisogna tenere in considerazione una dimensione sociale e di educazione. Le donne vengono divise in classi e ci si aspettano determinate scelte a seconda della classe sociale a cui si appartiene. Io cerco sempre di tenere a mente che ci sono donne con bisogni di base così importanti che non possono permettersi determinate scelte. Potrebbe essere il caso di una donna che ha bisogno di tornare a lavorare in fretta e per molte ore e che quindi non potrà praticare l’alto contatto. Oppure una donna straniera che vive in Italia e affida i figli ai nonni in un altro paese e viene tacciata di non amare il figlio. Ciò ci ricorda che il concetto di buona madre è legato anche a dei privilegi sociali. La maternità nel nostro paese non è protetta e il discorso sulla genitorialità è ancora legato a degli stereotipi.
Come possiamo uscire da una situazione che vede la genitorialità così fortemente legata a degli stereotipi?
Da un lato con l’educazione. Nelle scuole bisognerebbe cominciare a parlarne con le ragazze in età fertile e insegnare loro a conoscere il proprio corpo. La donna che si sente poco a suo agio nelle scelte di cura è spesso una donna che non ha imparato ad amare e conoscere il proprio corpo. Nella nostra società il corpo è oggettivato e bisogna riappropriarsene per fidarsi che in situazioni come la gravidanza e il parto saprà cosa fare. Offrire poi degli spazi di educazione tra pari quindi ad esempio donne che educano altre donne raccontando la propria esperienza creando magari dei circoli. Le donne non sono nemiche delle donne, è una narrazione utile da portare avanti solamente perché l’alleanza delle donne fa paura. Io ho avuto fortuna perché durante la mia prima gravidanza ho conosciuto un gruppo di dieci donne che ho continuato a frequentare per anni dalla nascita dei nostri figli e che era diventata una piccola comunità.
Si trattava di un gruppo adattato alla maternità intensiva?
Allora non si usava questa etichetta ma già all’inizio anni 90 era nell’aria l’idea di prendersi cura del bambino continuamente senza perdere mai il focus. Per il nostro gruppo è stato fondamentale l’approccio delle ostetriche che ci hanno insegnato a non utilizzare il pronome possessivo parlando dei figli. Da subito ci ha aiutato a entrare nell’ottica che il bambino deve potersi interfacciare con tante persone e avere altre figure di riferimento oltre alla mamma. Nonostante seguissimo tutte la filosofia dell’alto contatto eravamo dell’idea di mantenere i nostri spazi come donne e condividere le cure con il compagno.
E’ fondamentale entrare nell’ottica che il bambino non deve adeguarsi alle nostre aspettative e che spesso più si investe meno si ottiene perché a un certo punto giustamente i figli si faranno la loro vita (i miei sono usciti di casa molto presto).
Questo modo di vivere la maternità con leggerezza porta spesso ad essere tacciate di negligenza. Cosa ne pensa?
La negligenza ha una connotazione negativa, userei piuttosto il termine “madri disingaggiate”, ossia madri che non si riconoscono solo in questo ruolo ma anche in altri. Purtroppo nella letteratura internazionale attuale si tende a pensare che questa sia negligenza mentre il termine “disingaggiato” si usava negli anni 50 60 per indicare famiglie in cui gli individui erano abbastanza autonomi . Nella nostra famiglia c’è sempre stata una forte spinta all’autonomia. Essere autonomo ti aiuta a capire che tu vali. In particolare noi madri dobbiamo ricordare che abbiamo la responsabilità verso le figlie femmine di trasmettere loro l’immagine di una donna che da valore a sé stessa e ai suoi spazi in modo che anche loro imparino a far rispettare i loro confini di donne.
I suoi figli hanno sempre reagito con positività a questo suo approccio genitoriale?
Ovviamente non sono mancate le ribellioni, in particolare in adolescenza, quando mia figlia mi disse che con i suoi figli sarebbe stata più presente di quello che sono stata io. Si tratta di scelte. Io sono stata una madre ad alto contatto, ho allattato a lungo ma non amavo giocare, ho preferito i miei figli in adolescenza. Ho sempre avuto i miei spazi, sono diventata madre durante il dottorato di ricerca e la mia fortuna è stata un secondo figlio poco richiedente. Ciò nonostante quando lui aveva circa 2 anni e mezzo abbiamo vissuto una lunga malattia di mio padre che mi ha portato ad essere spesso assente. La brava mamma deve pensare a tante altre cose oltre al benessere del figlio, bisogna volersi bene e accettare i propri limiti.
Anche io come lei non sono una madre che ama giocare con sua figlia. Quando parlo con altre madri mi chiedono come faccio ad ammetterlo senza sentirmi una cattiva persona.
Bisognerebbe innanzitutto chiedersi se le stesse critiche verrebbero mosse a un padre che non ama giocare. Detto questo, l’importante è fare ciò che fa stare bene. Io non amavo giocare o fare torte ma mi divertivo molto a leggere storie facendo dei veri piccoli spettacoli teatrali. Se con tuo figlio fai un’attività che ti fa star bene trasmetti a tuo figlio quel benessere. Noi abbiamo sempre amato molto la montagna e in quel contesto creavamo dei momenti familiari che facevano star bene tutti e creavano un senso di comunità familiare.
Oggi le famiglie sono molto sole.
Si, attualmente La famiglia nucleare è una famiglia molto sola che non ha strumenti e risorse per affrontare piccole crisi. Sentiamo il bisogno di professionalizzare le relazioni e la solidarietà tra famiglie e tra donne si è un pò persa. Ricordo quando dopo la malattia di mio padre ho attraversato una crisi per non trovare una baby sitter che si occupasse di mio figlio dopo la scuola. Una conoscente si è offerta e ne è occupata per 6 anni, diventando una cara amica.
La paternità intensiva è meno vistosa. In generale il ruolo del padre si sta sviluppando in molte direzioni diverse. Ci sono papà vecchio stile ma anche molti papà che mirano a prendersi cura dei figli con varie modalità. Il cosiddetto “mammo” è quello che mira ad una cura molto simile a quella della mamma intensiva e spesso mette molta ansia nella cura genitoriale. Una mamma intensiva avrebbe invece bisogno di un compagno vicino che non trasmetta ansie ma si faccia carico della sua parte di cura.
Personalmente noto che in Austria, nonostante un welfare adeguato, pochi padri fanno la loro parte e spesso giudicano negativamente le madri per le loro scelte.
Il giudizio intrafamiliare è molto pesante. Ricordo un progetto molto bello realizzato da una mia collaboratrice. Per un certo periodo ha ripreso alcune donne nella cura giornaliera dei loro bambini piccoli per poi trasmettere quei video davanti agli altri componenti del nucleo familiari, mariti ma anche nonne. Lo scopo era rendere visibile il lavoro invisibile delle donne che si occupano dei figli e che spesso sono invece trattate dai loro familiari come se in casa si riposassero.
Un aspetto molto importante di cui lei ha parlato è quello del “bambino al centro”. Secondo lei è positivo o negativo mettere al centro di tutto i bambini?
Per me è pessimo soprattutto per il bambino. Vivere in un mondo in cui si è al centro delle aspettative di tutti non è positivo, è troppo impegnativo. Tutti noi dobbiamo essere al centro alternativamente a seconda del nostro bisogno. Quando questo bisogno non è essenziale è bene tornare nell’ombra. Oggi assistiamo a madri ipercontrollanti che non lasciano mai i bambini da soli e non li perdono mai di vista, neanche pochi minuti al parco. Tempo fa ho fatto una ricerca dove analizzavo i momenti della cena di alcune famiglia straniere in Italia e ho notato che in quelle il bambino era spesso in disparte ad ascoltare i discorsi degli adulti mentre in una famiglia italiana spesso parla solo il bambino pilotando la conversazione di tutto il tavolo. Questo vuol dire mettere sulle spalle del bambino una responsabilità che non deve avere.
Tempo fa a cena ho chiesto a mia figlia di aspettare e ascoltare mentre io e suo padre parlavamo di un argomento. Ho sbagliato?
Ha insegnato a sua figlia a rispettare un suo spazio. Io ho sempre avuto molto dialogo con i miei figli ma mi sono sempre tenuta dei momenti dove parlavo io delle mie cose con mio marito o con loro e in quel momento dovevano solo ascoltare, non era il loro momento. Ciò li aiuta anche ad abituarsi al mondo li fuori che inevitabilmente non li metterà al centro.
Un altro problema molto presente oggi all’interno della maternità intensiva è quello della sorveglianza. Molte mamme vorrebbero controllare continuamente i loro figli, addirittura installando telecamere negli asili. Le cosa ne pensa?
Sono molto critica su questo argomento. E’ necessario accettare che nella vita dei nostri figli esistono cose che sfuggono al nostro controllo ed è sano che loro vivano esperienze che noi non potremo mai conoscere. Il rispetto dei nostri figli passa anche attraverso la convinzione che loro possano farcela senza di noi. Per me è stato fondamentale un episodio quando mia figlia aveva circa 3 anni ed ha fatto una brutta caduta al parco giochi. Fino a quel momento mi ero illusa di poterla tenere in una bolla di perfezione e controllo ma quell’incidente mi ha tolto il velo dagli occhi comunicandomi che l’imperfezione non è un problema, la vita è imperfezione ed è mancanza di controllo. Affrontarle ci dice che ce la possiamo fare perché si impara dai problemi e dagli errori.
Quale consiglio darebbe ad una madre per vivere il rapporto con i suoi figli in modo più leggero?
Il consiglio finale per me è l’ironia e l’auto presa in giro. Io ho fatto parecchi errori, ho sempre chiesto scusa ai miei figli e l’ho fatto buttandola un pò sul ridere e prendendomi meno sul serio.
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